L’INSIEME DELLE PARTI
SIMONA PAVONI
GIACOMO BENEVELLI
12.11– 30.01.26

L’INSIEME DELLE PARTI
SIMONA PAVONI
GIACOMO BENEVELLI
testo a cura di Annika Pettini
con il contributo di Renata Bianconi
in collaborazione con Archivio Benevelli
Opening 11/11/2025 h 18:00
12/11 > 30/01/2026
Corso Monforte 23
Milano
martedì-venerdì 12:00 > 19:00
O su appuntamento
Per maggiori informazioni:
info@npartlab.com
SIMONA PAVONI
GIACOMO BENEVELLI
testo a cura di Annika Pettini
con il contributo di Renata Bianconi
in collaborazione con Archivio Benevelli
Opening 11/11/2025 h 18:00
12/11 > 30/01/2026
Corso Monforte 23
Milano
martedì-venerdì 12:00 > 19:00
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Milano, novembre 2025
La mostra L’insieme delle parti nasce intorno alla volontà di generare un luogo domestico, un salotto che vive e vibra di tutte le sue manifestazioni e che è tracciato e reso spazio a partire dai lavori di Simona Pavoni (San Benedetto del Tronto, 1994), in un dialogo delicato con una selezione di opere di Giacomo Benevelli (Reggio Emilia, 1925).
La pratica di Simona Pavoni si innesca a partire dalla sua capacità di percepire lo spazio come un insieme di elementi che lei può modellare e con i quali confrontarsi attraverso i suoi lavori. A partire dalla soglia, dove la luce svela fin da subito il suo ruolo fondamentale per la mostra, e che qui dialoga con gli Schermi, lavori in carta modello traforata che inducono a sostare e contemplare. Alle loro spalle si tratteggia lo spazio intimo di un salotto, ispirato al design degli anni ‘60. Luogo nevralgico della casa in cui si raccolgono e si innescano incontri e scambi, e dove i lavori di Simona Pavoni e di Giacomo Benevelli si adagiano in un dialogo di forme, un rimando di intuizioni che creano un ambiente vivo. La serie dei Centrini di Pavoni diventa il punto focale delle superfici, racchiudendo una inevitabile memoria emotiva che trova il suo contrappunto nel materiale con cui sono realizzati: vetro frantumato, che rende manifeste le fragilità e mette in discussione i confini delle cose. Sempre di Simona Pavoni la serie di tele Pori che si fanno pelle e che, attraverso i suoi pattern, lasciano trasparire un retro caleidoscopico. Accanto a loro un’altra opera apre un dialogo inaspettato.
Ma il salotto è anche il luogo per eccellenza del dialogo e delle possibilità, dove il corpo si rilassa e la mente si offre al mondo. Una forma in divenire che ritroviamo anche nel lavoro di Giacomo Benevelli, con le sue linee morbide e accoglienti sia nei suoi lavori più geometrici che in quelli più realistici. Come gli animali che prendono il loro posto in mostra e coesistono in una costante vicinanza con l’essere umano, portando ancora una volta alla luce il fatto che, così per Benevelli che per Pavoni, la scultura non si mostra ma abita lo spazio.
Le opere di Pavoni e Benevelli creano un luogo in evoluzione, con linee pulite che trovano morbidezza e continuità nelle sculture di Benevelli, che affrontano con grande consapevolezza i temi della vita nelle sue forme più filosofiche ma anche nella spontaneità a tratti tenera degli animali. Così Simona Pavoni si interfaccia con la capacità di modellare le parti dell’insieme in cui esistiamo, creando una dimensione di continuità e coesistenza.
Simona Pavoni (San Benedetto del Tronto, 1994)
Vive e lavora a Milano. Ha conseguito il diploma triennale nel 2017 presso l’Accademia di Belle Arti di Urbino e nel 2020 il diploma magistrale all’Accademia di Brera, Milano. Tra le mostre personali: The recipe, Schaumbad, Graz, Austria (2025); Buone Maniere, Ex Maglierie Mirella, Milano (2024); A midsummer night’s dream, Notgalerie, Vienna, Austria (2022); Zona notte, Depositomele, Milano (2022). Nel 2025 partecipa a Cremona Art Week a cura di Rossella Farinotti all’interno del progetto Brigantia di Annika Pettini. Sempre nel 2025 la galleria Mare Karina presenta la sua personale À Jour, a Venezia.
Giacomo Benevelli (1935-2011)
Artista, scultore, designer, esponente della scuola dell’astrattismo milanese, Giacomo Benevelli ha modo di conoscere grandi maestri dell’arte italiana e internazionale come Moore, Huelsenbeck, Kokoschka, Arp, sviluppando così un proprio linguaggio formale, riconosciuto dai maggiori studiosi d’arte contemporanea, che gli permise di imporsi quale figura primaria della scena artistica italiana e internazionale fin dalla fine degli anni ‘50.
Nel 1963 la prestigiosa Felix Landau Gallery di Los Angeles gli dedica la sua prima personale negli Stati Uniti: Il successo è enorme, tanto che Elizabeth Taylor e Richard Burton acquisiranno numerose opere dell’artista e riserveranno ad una di queste, Organic Matrix, un posto centrale nella scenografia del film “Chi ha paura di Virginia Woolf?", di cui sono protagonisti .
Nel 1964 partecipa alla XLII Biennale d’Arte di Venezia, negli stessi anni inizia la collaborazione con aziende del design ideando, fra le altre, lampade - scultura, divenute vere e proprie icone, come ROTO e ARABESQUE. Durante la sua carriera espone in numerose mostre personali e collettive tra cui: la Galleria Gunther Franke di Monaco di Baviera nel 1961; la VII Biennale di Scultura al Pare del Middelheim ad Anversa nel 1965; la IX Quadriennale di Roma nel 1971; la Galleria Stendhal di Milano nel 1981; la Casa del Mantegna a Mantova nel 2000; Poetiche del 900 a Castel Ivano, Trento, 2004; Sculture en plein air, Palazzo Stupinigi, Torino, 2006; Sculture alle porte d'Oriente al Museo Archeologico Brindisi, 2006; ltalian Prints - 1875-1975 The British Museum, Londra, 2007; Monumento per il Parco letterario di Ippolito Nievo, Gazoldo degli Ippoliti, Mantova, 2008.
Tra le collezioni pubbliche e private che conservano opere di Giacomo Benevelli si annoverano, il British Museum di Londra, il Museo Reale d’Arte di Anversa, la Galleria Nazionale d’Arte di Johannesburg.
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DISPOSITIVI DELLA MEMORIA
MENGFAN WANG
MARGHERITA PEDROTTA
24.09– 24.10.25

DISPOSITIVI DELLA MEMORIA
MENGFAN WANG
MARGHERITA PEDROTTA
Opening 23/09/2025 h 18:00
24/09 > 24/10/2025
Corso Monforte 23
Milano
martedì-venerdì 12:00 > 19:00
O su appuntamento
Per maggiori informazioni:
info@npartlab.com
MENGFAN WANG
MARGHERITA PEDROTTA
Opening 23/09/2025 h 18:00
24/09 > 24/10/2025
Corso Monforte 23
Milano
martedì-venerdì 12:00 > 19:00
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NP-ArtLab presenta Dispositivi della Memoria, un’esposizione che unisce due pratiche artistiche distinte in un dialogo intimo e stratificato sul ricordo, il trauma emotivo e il cambiamento interiore.
La mostra mette in relazione due opere che, pur operando con linguaggi e materiali differenti, convergono nel desiderio di dare corpo alla memoria e alle sue trasformazioni. Da un lato, ProjeRicordi di Mengfan Wang (Pechino, 2000), dall’altro testimone 1, 2, 3, 4 di Margherita Pedrotta (Ivrea, 1998): due percorsi che si intrecciano per interrogare il confine tra ciò che resta e ciò che si perde nel tempo.
Nel suo progetto fotografico, Mengfan Wang affronta il tema del trauma e della memoria filtrandolo attraverso l’immagine del paesaggio naturale. Utilizzando la tecnica sperimentale del film soup — in cui le pellicole vengono trattate con sostanze come vodka e limone — l’artista genera fotografie visionarie e instabili, dove la chimica diventa metafora della psiche. Le immagini, segnate da corrosioni e alterazioni cromatiche, evocano frammenti di ricordi distorti, a metà strada tra realtà e oblio. I soggetti naturali — alberi, fiori, animali — assumono il ruolo di presenze silenziose, osservatrici di un tempo interiore, sospeso tra permanenza e dissoluzione.
A queste visioni si affianca la ricerca installativa di Margherita Pedrotta, che propone una riflessione sulla trasformazione della materia come riflesso dei processi emotivi. In testimone 1, 2, 3, 4, quattro contenitori metallici custodiscono bouquet composti da materiali artificiali — gesso, acqua, butadiene — sottoposti a ripetuti cicli di gelo e disgelo. Il lento scioglimento del ghiaccio, percepibile attraverso il suono, scandisce un tempo dilatato, in cui la conservazione del ricordo si confronta con la sua inevitabile mutazione. I fiori, pur non essendo vivi, raccontano storie d’amore e di assenza, diventando figure rituali e fragili portatrici di memoria affettiva.
Le due opere, pur così diverse, si rispecchiano l’una nell’altra: entrambe esplorano come il ricordo non sia mai una forma fissa, ma un continuo movimento. Nei paesaggi alterati di Wang come nelle materie che si sciolgono nell’opera di Pedrotta, la memoria non si conserva, ma si trasforma, si smaterializza, si rivela nel cambiamento. È un corpo vivo e vulnerabile, che filtra emozioni, trattiene tracce, ma anche resiste e si dissolve.
La mostra diventa così un percorso sensoriale e simbolico sulla memoria come processo, non come archivio. Una soglia emotiva in cui materia e immaginazione si incontrano, raccontando ciò che rimane, ciò che cambia, e ciò che – forse – non può più essere ricordato.
PER SENTITO DIRE
Giulio Polloniato
30.08– 23.11.25

PER SENTITO DIRE
Giulio Polloniato
Testo a cura di Edoardo Lazzari
Inaugurazione 30/08/2025 h 12:00
31/08 > 23/11/2025
Pop (the Chapel) up
Galleria Tommaso Calabro
Campo San Polo 2177, Venezia
Marostica, 5 aprile 2084
“Il cannone ha squarciato il cielo! Il cannone ha squarciato il cielo! I cannoni antigrandine, strumenti emblematici dell’ingegno umano, sono il motore di una catastrofe senza precedenti. Un boato anomalo ha attraversato le colline punteggiate di ciliegi e il cielo ha iniziato a squarciarsi. Migliaia di frammenti luminescenti si sono staccati dalla volta celeste, cadendo al suolo in una pioggia di schegge incandescenti. Ora il cielo è un mosaico disordinato, le scienziate osservano con sgomento l’accaduto. I frammenti sono raccolti tra i frutteti in fiore”.
In un tempo prossimo e immaginato, un suono umano infrange il firmamento. L’invenzione dei cannoni antigrandine — tecnologia della superstizione — deflagra sulle colline dei ciliegi e scatena una frattura cosmica: il cielo cade a pezzi, in frammenti di ceramica smaltata e stelle stilizzate.
La mostra Per sentito dire, titolo che l’artista Giulio Polloniato sceglie di reiterare e rifrangere a seconda del contesto, raccoglie e dispone nello spazio i resti di questo evento impossibile. Cinque “stracci stellati” in ceramica refrattaria, disposti come panni rituali o reperti geologici, si adagiano lungo le colonne della cappella; un sesto lambisce il bordo del pozzo, come se l’acqua potesse restituire al cielo la sua immagine. Al centro, una maiolica dipinta — trasposizione pittorica di fotografie scattate nei boschi di Marostica nel 2020 — registra la presenza delle strutture antigrandine: coni metallici, silenziosi monumenti a un gesto tecnico inefficace.
La tensione tra immaginazione e fallacia tecnica, tra memoria e credenza, è il cuore del lavoro. Come nella tradizione della fabula speculativa, la finzione diventa strumento critico per rivelare la verità di un paesaggio sonoro violato. La pressione sonora dei cannoni, infatti, decade esponenzialmente con la distanza, fino a ridursi a un mero schiocco di dita nel cuore delle nuvole. Nessun effetto reale, se non l’insistenza rituale di una tecnologia trasformatasi in mito: un sapere per sentito dire che si tramanda più per necessità di rassicurazione che per efficacia.
Nel gesto di raccogliere i frammenti di cielo e trasporli in ceramica, Polloniato compie una ritualizzazione del fallimento e una cura per l’effimero che si fa materia. Il cielo si fa coccio, e il firmamento si irrigidisce in forma di tessuto spezzato. Come nei “cieli minerali” di Roger Caillois o nei “pezzi staccati” di Jannis Kounellis, la materia qui assorbe il peso del tempo e dell’errore umano.
Il lavoro sfiora il pensiero della chimica e filosofa Isabelle Stengers, per la quale “ogni tecnologia è anche un modo di abitare il mondo”. I cannoni antigrandine non sono soltanto dispositivi: sono gesti epistemici, atti performativi che rivelano un rapporto distorto con il non-umano — un’ostilità mascherata da tutela agricola, una guerra sonora condotta contro le nuvole.
Per sentito dire diventa così un archivio di resti e superstizioni, un mosaico di frammenti raccolti a terra e disposti come reliquie di un evento che forse non è mai accaduto. La ceramica, con la sua doppia natura fragile e resistente, custodisce la memoria di un cielo impossibile: un firmamento che non si osserva più, ma si ascolta — o, meglio, si immagina — attraverso racconti tramandati, più vicini alla leggenda che alla prova.
Eppure, tra il peso della materia e la leggerezza del racconto, rimane uno spazio d’ascolto: quello che si apre quando il rumore cessa e si resta soli, sotto un cielo rotto, a misurare la distanza tra ciò che crediamo e ciò che davvero accade.
Edoardo Lazzari
UN CIELO PER ICARO
Leonardo Dalla Torre
Frédérique Nalbandian
14.08– 14.09.25

UN CIELO PER ICARO
Leonardo Dalla Torre - Frédérique Nalbandian
Opening 13/08/2025 h 18:00
14/08 > 14/09/2025
San Francesco
Ventimiglia Alta
La mostra propone l’incontro tra due artisti contraddistinti da due pratiche formalmente diverse: Leonardo Dalla Torre, giovane pittore veneziano, e Frédérique Nalbandian, artista middle-career francese, che utilizza nella sua pratica scultorea e installativa due materiali di predilezione, il sapone di Marsiglia e il gesso.
Partendo dal concetto di cielo rovesciato nel pensiero di Bataille (Billom, 1897 - Parigi, 1962), il titolo della mostra vuole evocare i concetti di vuoto, pienezza e gravità, a cui le opere degli artisti rimandano, sintetizzati nella figura di Icaro, che sfida il destino e si arrende alla vertigine della sua caduta. Gli ambienti sgombri della chiesa si prestano a loro volta ad accogliere questi lavori, in un dialogo reciproco scandito da sottili rimandi.
Lungo gli altari laterali della navata, le tavole di Leonardo Dalla Torre (Venezia, 1995) non si collocano a riempimento delle nicchie, ma sono disposti alla loro base, come ad assecondare e intensificare il vuoto soprastante. L’artista presenta frammenti di corpi e carne, alternati a volti che richiamano antiche sculture religiose. Le figure sembrano stanche, ripiegate su loro stesse, deformate: si sciolgono come cera, sfuggono ai margini delle tavole, sottraendosi alla narrazione. L’iconografia si dissolve, lasciando solo l’eco di ciò che è stato. Le sue immagini portano i segni di un tempo consumato, di un evento già avvenuto del quale si può solo intuire il compimento.
Frédérique Nalbandian (Mentone - FR, 1967) interviene nello spazio con sculture in sapone di Marsiglia e gesso, materiali inediti e dalla forte simbologia, che esplorano tematiche come la fragilità, la cura e la resistenza allo scorrere del tempo. Le sue installazioni, in dialogo con gli elementi architettonici della chiesa, emulano le strutture tipiche degli edifici religiosi, sottolineandone la solidità tradizionale. Una cascata di rose rosse in gesso, che si riversa nella navata, dona invece un senso di freschezza e vitalità. Qui, la rosa – emblema di bellezza, amore e caducità – viene annegata nel gesso, per conservarne la memoria in forma “eterna”.
Attraverso un gioco di raffinati rimandi con l’architettura che le ospita, le opere dei due artisti offrono a San Francesco una nuova interpretazione dello spazio, invitando il visitatore a un diverso tipo di contemplazione, che va oltre il contesto religioso per esplorare il significato simbolico dell’architettura. Vuoto e pieno si armonizzano così in un equilibrio sottile, fatto di risonanze silenziose e accurate allusioni.
Leonardo Dalla Torre è nato a Venezia nel 1995. Cresciuto nel centro storico della città si è diplomato al Liceo Artistico Statale di Venezia nel 2013, proseguendo gli studi presso l’Accademia di Belle Arti di Venezia diplomandosi in Pittura nel 2017 e in Grafica d’Arte-Disegno nel 2019. Come pittore approfondisce la propria ricerca indagando come principali tematiche la figurazione e il ritratto. I modelli utilizzati attingono sia dalle immagini della Storia dell’Arte e dalle forme della pittura del passato, così come da un differente immaginario, alienando le differenze contestuali, accumunando i caratteri espressivi del corpo e della carne, rilevandone i sintomi e l’apertura in una pittura che cerca l’incombenza di una calamità, sospendendo le immagini in una deflagrazione perpetua.
Frédérique Nalbandian (Mentone, 1967) è un’artista multidisciplinare francese: scultrice, realizza anche disegni, installazioni e performance. Dopo aver seguito i primi corsi di disegno alla Davis High School in California, nel 1988 entra nell’École Nationale d’Art Décoratif d'Aubusson, per poi essere ammessa all'École Nationale Supérieure d'Art di Villa Arson nel 1989. Nel 1994 ottiene una residenza artistica dedicata al disegno presso la Fondazione Ratti di Como, sotto la direzione di Anish Kapoor e Karel Appel. Nel 1996 consegue il Diplôme National Supérieur d'Expression Plastique (DNSEP).
Le sue sculture di sapone si evolvono sia dall’interno che dall’esterno, trasformandosi nel tempo e necessitando talvolta dell’interazione attiva del visitatore. Nelle sue opere utilizza anche materiali poveri come gesso, tessuto, fili di lana, vetro, terracotta. Modellando il sapone, crea forme che sospende o lascia evolvere nel tempo, che diviene perciò elemento fondamentale nelle sue opere. Il suo vocabolario di forme plastiche è in continua espansione: rotoli, frammenti, colonne, pareti, corde, ma anche elementi direttamente legati all'anatomia del corpo umano (orecchie, cervelli, pelli, teschi, mani). Le sue forme, nella loro composizione e nel processo che subiscono, diventano poetiche, cariche di una metafisica della materia che evoca il passaggio del tempo, l’erosione, la trasformazione e la metamorfosi. L'allusione al testo Le Savon di Francis Ponge è stata sin dagli inizi fondamentale per la sua produzione e si è rafforzata nel 2015 a Cerisy in occasione di alcuni laboratori dedicati allo scrittore, dove ha incontrato Pascal Quignard.
RAOUL SCHULTZ (1931-1971)
Artista per attitudine
Opening 1/04/2025 h 12:00
2/04 > 22/05/2025
NP ArtLab in collaborazione con Archivio Raoul Schultz
Corso Monforte 23
Milano
martedì-venerdì 12:00 > 19:00
O su appuntamento
Per maggiori informazioni:
info@npartlab.com
NP ArtLab presenta “Raoul Schultz. Artista per attitudine”, una mostra dedicata all’artista poliedrico che ha avuto una breve carriera artistica a Venezia a causa della sua prematura morte nel 1971. Negli anni Cinquanta e Sessanta la sua pratica artistica è mutata velocemente: da una pittura figurativa poi evoluta all’astrazione spazialista tipica dei maestri del tempo come Vedova, Guidi e Tancredi (con cui condivise lo studio per un periodo), ad una visione più concettuale sicuramente sviluppata dal suo grande interesse per i nuovi scenari artistici internazionali. Per questa ragione non ebbe il riconoscimento che merita e venne solo in seguito riscoperto già dagli anni ’80, per esempio, con la mostra della Galleria del Naviglio del 1988.
Schultz fu pittore, illustratore, scenografo e grafico, e collaborò con il regista Tinto Brass nel film Chi lavora è perduto (1963). Inoltre, frequentò il mondo del fumetto collaborando con il celebre Hugo Pratt.
Questa esposizione si inserisce in un periodo di riscoperta e valorizzazione dell’artista di cui è stata appena inaugurata un retrospettiva intitolata Raoul Schultz. Opere 1953-1970, curata da Stefano Cecchetto ed Elisabetta Barisoni, ospitata nella prestigiosa sede di Ca' Pesaro a Venezia.
È proprio un testo di Stefano Cecchetto ad accompagnare la mostra.
Geniale, creativo, irriverente, ironico, la figura di Raoul Schultz si colloca in quella parte di Novecento che ha sviluppato la pittura come un linguaggio frammentario, volutamente mirato a una pulsione trasgressiva.
I diversi periodi che compongono l’opera di questo artista sono dominati da una luce d’intelletto e riscattati dal lirismo di una pura felicità formale. In ogni suo ciclo d’espressione: dalle Prospettive curve ai Progetti da disegni Leonareschi, dai Calendari alle Lettere anonime, dal Fumetto alla Pittura a metro, per arrivare infine alle Toponomastiche, tutta la sua ricerca mira all’abbagliante incantesimo del momentaneo, a una personale astrazione da mode o correnti stilistiche per la definizione di un pensiero che filtra la quotidianità e la sposta fuori dal consueto.
Questo suo annettere l’opera allo sviluppo di una concezione seriale permette a Schultz di andare a fondo nei concetti che intende analizzare, così facendo, la ‘serie’ diventa un procedere simultaneo dentro al quale si evince la coesistenza di ordini e livelli paralleli. Del resto, ogni serie si espande e si conclude nell’arco di un ciclo che lo stesso artista determina in un periodo prestabilito.
Le molte partenze che contraddistinguono il percorso artistico di Schultz sono dovute alla costante ricerca di una forma distinta, volta a conferire alla sua pittura non la semplice variante di un tono espressivo, ma la concreta realtà di un punto di vista interiore: nell'opera di Schultz ogni spazio abitato dal segno è uno spazio dell’anima.
Ecco perché prendono forma le suggestioni di un tempus fugit nella poetica straziante dei suoi Calendari, ed è qui che l’artista suggerisce l’inconsapevole premonizione della sua fine prematura. Nel susseguirsi spasmodico dei giorni 'strappati' al calendario – e di conseguenza anche alla vita stessa – l'artista mette in scena l'inquietudine dell'incertezza, il tempo diventa quindi fonte di indagine continua, o meglio uno dei temi fondamentali intorno al quale ruota la quasi totalità della sua produzione degli anni sessanta.
Il destino di Raoul Schultz era dunque quello di mancare inevitabilmente il proprio destino, e a voler capovolgere questo presagio non rimaneva che una possibilità: quella di rappresentarlo, raccontando le tante storie che percorrono il dialogo tra l'uomo e sé stesso, tra il pensiero e i pensieri, tra l'artista e la sua arte.
Stefano Cecchetto
